Testi liturgici: Sir 27, 5-8; I Cor 15,54-58; Lc 6,39-45
Prendiamo in considerazione l’espressione evangelica appena ascoltata: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”.
Ed allora subito ci facciamo due domande.
Quale valore hanno le parole che noi pronunciamo nei confronti di altri?
Cosa manifestano di noi quando le parole che mettono in evidenza il loro mal comportamento?
Possono esservi diverse motivazioni.
A volte lo facciamo per leggerezza e per una non piena riflessione e quindi per un passatempo senza darvi eccessiva importanza; altre volte perché ci sentiamo come costretti a parlarne; spessissimo, comunque, lo riteniamo una cosa malfatta e biasimevole, una cosa che definiamo con il termine di “mormorazione” o di “maldicenza”, cosa questa che rimane solo “chiacchiericcio”, che non costruisce nulla, anzi che diventa una mancanza di carità verso gli altri.
Il tutto dipende dalla motivazione per la quale partono questi discorsi e queste parole, le quali, a loro volta, potrebbero essere buone oppure cattive.
E’ cosa buona se provengono da un cuore buono e pieno di amore, da un cuore che soffre per la situazione che si sta attraversando, tanto da sentirsi come costretti a manifestarlo ad altri per avere luce e consiglio sul come comportarsi e sul come intervenire per migliorare la situazione, o per lo meno perché il tutto sia messo nella preghiera.
Questa cosa è buona perché stiamo amando la persona di cui si parla.
Del resto è quello che farebbe una buona mamma e sposa che a sera, quando il marito torna dal lavoro, è costretta a raccontargli una grossa marachella che il figlio ha commesso nella giornata. Certamente non la ritiene una mormorazione, tutt’altro.
Altra cosa, invece, se provengono da un cuore superficiale, da un cuore che non ama, da un cuore che non vuol aiutare, da un cuore che non sta soffrendo per il mal comportamento dell’altro, ma prova solo il gusto di poter dire: “Lo sai!?… Lo sai!?… hai visto cosa ha fatto la tal persona!?…”; tanto peggio poi se tutto questo è aggravato da invidia e gelosia, dal voler far sminuire la stima verso l’altro e così maggiormente riuscire a concentrarla verso di sé.
In questo ultimo caso non c’è solo un cuore non buono, ma addirittura cattivo attraverso il quale si sta manifestando una specie di azione diabolica.
Ora la domanda a noi. In genere com’è il nostro parlare degli altri?
Guai se dimenticassimo l’espressione di Gesù, quella di non fare caso della trave che è nel nostro occhio, mentre non ci sfugge la pagliuzza che è nell’occhio dell’altro.
Il medesimo pensiero viene presentato anche con un’altra espressione: “Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto”.
Anche il libro del Siracide esprime lo stesso pensiero: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore”.
Come è vero!
Se il nostro cuore e la nostra vita interiore è in comunione con Dio, allora la parola che esce da noi sarà sempre pura e nel contempo costruttiva; ma se il nostro interiore è tenebroso e vizioso, la parola che ne esce sarà sempre fradicia o bacata.
Da qui deriva l’importanza del silenzio e della riflessione. Se uno è incapace di tacere, sarà anche incapace di parlare, perché ogni parola saggia proviene da un mondo interiore silenzioso. Se una persona parla sempre e e parla troppo sin troppo, la sua parola diventa facilmente chiacchiera.
Solo chi è abituato a riflettere ed a vivere alla presenza di Dio, pronuncerà parole ragionate e buone, giuste e propositive.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario san Giuseppe in Spicello
Comments are closed.