Testi liturgici: Gs 5,9-12; II Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
La parabola che abbiamo ascoltato, nell’intendimento comune, è considerata come un fatto riguardante il figlio minore. È anche vero ed è proprio per questo che è stata definita quale “parabola del figlio prodigo”.
Però di fatto Gesù la racconta in riferimento al Padre celeste, sempre buono e amorevole verso tutti e soprattutto verso i peccatori, per cui sarebbe più logico definirla quale “parabola del padre buono”.
È il padre, infatti, che sta al centro di essa e non sono i figli, anche se questi aiutano a comprendere meglio la bontà del padre stesso.
Ed infatti è raccontata per rispondere all’accusa che i farisei attribuivano a Gesù, in quanto accoglieva e mangiava con i pubblicani e i peccatori. Se faceva questo, lo faceva per rendere visibile il comportamento del Padre celeste.
Come effetto, nascosto sotto le righe, Gesù non vuol dire che il peccare vada bene. L’importante è che il peccatore se ne renda conto e così possa tornare sui propri passi, proprio come ha fatto il figlio minore.
Il brutto è quando uno crede di comportarsi bene, come sarebbe stato il figlio maggiore, ma che di fatto lui pure non ama nel giusto modo.
Dove sta la differenza fra di loro e come si comporta il padre nei loro confronti?
Andiamo a rifletterci per applicare a noi.
Il figlio minore, ad un certo punto, si rende conto di aver sbagliato. Ora è deciso a tornare, ma come riuscirvi per essere di nuovo accolto?
Ha già preparato il “discorso di rientro”, con esso riconosce di averla fatta grossa a chiedere l’eredità ed aver offeso il padre in diversi modi. Ora si rende conto che deve presentarsi mogio ed umiliato nella speranza di poter essere riammesso, per lo meno come un semplice garzone.
Invece il padre non lo lascia neppure parlare, non lo rimprovera affatto, anzi da ordine che si prepari una grande festa, una festa sinora mai avvenuta nell’azienda. E non solo, ma il fatto dell’essere un garzone, neppure se ne parli.
Infatti, in maniera inaspettata, si vede riammesso alla piena dignità che aveva perduto – quella di vero figlio – attraverso i segni simbolici dei sandali ai piedi e dell’anello al dito, e questo senza alcun prezzo di riscatto.
Una benevolenza e una festa che il giovane non si aspettava di certo. C’è proprio da dire che ancora non aveva conosciuto l’amore vero del padre.
Ed è proprio questa festa che fa infuriare il figlio maggiore perché mai ne aveva avuta simile, pur credendosi di doverla meritare, proprio per la sua bontà e per il suo servizio.
Ma è proprio vero che era più buono del fratello?
Dal comportamento che ora assume non sembra proprio vero. Non tanto per il ritorno del fratello, ma soprattutto perché è stato accolto in quel modo!
Ed ecco la sua reazione: “Si indignò, e non voleva entrare”.
Ed ecco la motivazione: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”.
Per cui dobbiamo concludere che neppure lui conosce la bontà del padre. Infatti, non si tratta solo di ubbidire, ma di fare questo sempre con amore e per amore, mai per un proprio vantaggio.
Non potremmo forse anche noi assomigliare al figlio maggiore?
Forse crediamo di essere a posto per il fatto di non esserci mai allontanati dalla chiesa e perché continuiamo a compiere le buone pratiche religiose.
Come dovremmo essere, invece?
Dovremmo soffrire quando un altro si allontana. Ed ancor più di essere contenti quando se ne ravvede, senza rinfacciargli nulla.
Questo, purtroppo, non sempre avviene e pertanto non siamo neppure uniti alla festa che si celebra in cielo per ogni peccatore che si converte e che torna all’ovile.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario san Giuseppe in Spicello
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